L’Alzheimer, malattia che deve il suo nome a quello del neurologo tedesco (Alois Alzheimer) che ne individuò per primo le caratteristiche, è una patologia neurodegenerativa che colpisce le cellule cerebrali portandole alla morte, conducendo quindi il paziente alla graduale perdita delle funzioni cognitive.
Non se ne conoscono le cause, o meglio le ipotesi sulla sua origine sono diverse, ma non c’è un riconoscimento unanime circa i meccanismi che portano alla demenza riconducibile all’Alzheimer. Le funzioni che risultano compromesse sono in tutti i casi la memoria, le capacità logiche, il linguaggio. Via via il paziente smette di essere autonomo e non riesce più a svolgere neanche le attività più elementari.
Una delle cause della malattia (la più vagliata negli ultimi anni) potrebbe essere l’accumulo di proteina beta-amiloide sui neuroni, un’ipotesi che non sembra convincere l’intera comunità scientifica o perlomeno non può essere considerata la più attendibile, l’unica sulla base della quale mettere a punto nuovi farmaci. Un versante, quello delle terapie, che resta piuttosto fermo, nella delusione di milioni di famiglie nel mondo. Milioni di persone che fanno i conti con questa patologia invalidante e irreversibile.
Gli scienziati proseguono nel loro lavoro di ricerca sulle cause, e alcuni di loro si sono spinti a ipotizzare che l’Alzheimer potrebbe dipendere da anomalie nel funzionamento del sistema immunitario. In questo caso non si tratterebbe più di una malattia del cervello, quanto piuttosto di una patologia autoimmune.
A capovolgere la prospettiva è lo studio di un gruppo di scienziati del Krembil Brain Institute di Toronto, in Canada. Si parte dal presupposto che la proteina beta amiloide sia una molecola normalmente presente nel cervello e non il frutto di una condizione patologica. La proteina sarebbe quindi una difesa che il sistema immunitario attiva in caso di infezioni batteriche o traumi. Accade tuttavia che la beta amiloide confonda i lipidi che rivestono i batteri con quelli presenti sui neuroni, le due membrane si somigliano e così le cellule sane finiscono con l’essere bersagliate dalla proteina beta amiloide come se fossero batteri. Le placche amiloidi che si accumulano sui neuroni impediscono loro di svolgere le consuete funzioni. Si tratta senza dubbio di un’ipotesi da tenere in considerazione, mentre prosegue la sperimentazione di nuovi farmaci.
L’ultimo studio incoraggiante che riguarda le terapie arriva dall’Università di Yale ed è stato appena pubblicato sul New England of Journaldi Medicina. Sembra che i risultati siano ancora modesti, ma un nuovo farmaco, il Lecanemab, sarebbe in grado di rallentare la progressione della malattia. Il farmaco arriverebbe dopo vent’anni di impegno sulle immunoterapie antiamiloide. Si tratta di un anticorpo monoclonale che attende ora di essere valutato dagli organismi competenti per le autorizzazioni del caso. La sua azione si esplicherebbe attraverso la rimozione delle placche amiloidali. In ogni caso, per il momento potrebbe essere somministrato solo ai pazienti con diagnosi appena ricevuta. Si dovrà attendere ancora prima di sapere se il monoclonale sia davvero efficace come promette. Sulla base dei risultati in ambito clinico, sarà possibile sviluppare altri medicinali.
Le malattie autoimmuni, a prescindere dall’ipotesi che riguarda l’Alzheimer, sono dovute ad anomalie del sistema immunitario. Le difese dell’organismo, invece di aggredire gli agenti patogeni, attaccano le cellule sane, non riconoscendole più come parte del corpo.
Prendersi cura del proprio sistema immunitario significa innanzitutto avere una dieta equilibrata, privilegiando il consumo delle fibre, quindi della frutta e della verdura e contenendo quello dei grassi, soprattutto quelli più dannosi. Anche l’attività fisica è importante; di fatto la sedentarietà indebolisce le difese, favorendo una serie di malattie.
Può essere opportuno integrare nella dieta prodotti della nutraceutica (nutrizione + farmacologia) studiati per rinforzare il sistema immunitario. NKlife AHCC® in soluzione orale o in capsule migliora le difese dell’organismo e la resistenza alle infezioni.
Le capsule si differenziano dalle compresse (queste ultime vengono preparate per compressione di una miscela di ingredienti attivi e inattivi, granulati o polveri) perché contengono nel loro involucro in gelatina i principi attivi della sostanza da assumere. Le compresse possono essere divise, le capsule non vanno invece aperte ma deglutite intere. Indipendentemente dalla formulazione (compresse, capsule o soluzione), tutti i principi attivi devono sempre solubilizzarsi allo scopo di essere assorbiti. Quindi le forme solide in capsule o compresse devono disintegrarsi e disaggregarsi, affinché il fitocomplesso si solubilizzi e possa essere assorbito, raggiungere così la circolazione sistemica e distribuirsi sui recettori delle cellule del sistema immunitario.
Si sceglie naturalmente una formulazione piuttosto che un’altra a seconda delle esigenze del paziente. L’integratore in soluzione orale ha una farmacocinetica e una farmacodinamica più veloce delle capsule, è quindi consigliabile nel caso in cui ci sia bisogno di un sostegno immediato al sistema immunitario. Per assunzioni che coprono invece periodi più lunghi e non hanno carattere di “urgenza” la formulazione in capsule è più indicata. I trattamenti a lungo termine beneficiano di questa formulazione.