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L’epatite è la più frequente tra le malattie del fegato nell’essere umano.

Si tratta di una patologia specifica, almeno in senso generale, perché con il termine “epatite” si indica una situazione patologica precisa: l’infiammazione (ite) del fegato (hepar).

La definizione, però, non ci dice molto sulle cause di questa patologia, perché le ragioni per le quali insorge un processo infiammatorio nel fegato sono difficili da classificare e, a volte, anche da curare.

Ci sono infatti alcune epatiti, di solito batteriche, che si curano senza problemi particolari, con terapie ormai ben consolidate.

Al contrario ci sono forme di epatite che non hanno cura (come quella causata dall’ingestione di Amanyta phalloides, un fungo velenoso dagli effetti molto rapidi) e forme la cui terapia è variabile, nel senso che l’intervento terapeutico non sempre è efficace.

 Le epatiti, dal punto di vista patologico, si possono dividere in due grandi gruppi:

  • le epatiti non infettive, quelle in cui l’agente non è un batterio o un virus ma sono causate da alcool, obesità, ecc.;
  • le epatiti infettive, quelle causate da batteri o virus. 

Le più diffuse sono quelle causate dai virus dell’epatite umana, che sono state nominate usando le lettere dell’alfabeto: epatite A, epatite B, epatite C, epatite D ed epatite E.

Ma non sono le sole: vi sono tantissimi agenti infettanti che possono causare epatite.

Il fatto che il fegato sia uno degli organi più colpiti dalle infiammazioni non è casuale: questo organo, infatti, ha lo scopo di filtrare tutte le sostanze che arrivano dall’apparato digerente (dal quale, solitamente, entrano gli agenti infettanti), detossificare le sostanze velenose e uccidere gli agenti infettanti prima che arrivino agli altri organi del corpo.

Alcune epatiti, come abbiamo visto, sono di più semplice risoluzione, mentre per altre, la cui azione è troppo veloce, non si hanno cure efficaci.

Le forme di epatite su cui la ricerca si sta concentrando maggiormente sono quelle forme che tendono a cronicizzare, le epatiti croniche, in cui la situazione non è grave fin dall’inizio, ma va peggiorando nel tempo.

Il fegato perde progressivamente la sua funzionalità fino ad arrivare allo stadio terminale, la cirrosi epatica, in cui non presenta più alcuna delle sue funzioni originali.

Le terapie per evitare la cronicizzazione delle epatiti esistono e si basano, soprattutto, sull’assunzione di interferone.

Spesso non sono risolutive perché non si riesce ad annullare completamente i danni della sostanza tossica oppure del virus (in particolare nei casi di epatite B, C e D, mentre l’epatite A e la E non cronicizzano).

È per questo che la medicina cerca costantemente delle terapie alternative a quelle tradizionali per riuscire ad arrestare, o almeno a rallentare, il decorso di queste forme di epatite.

Il ruolo dell’AHCC nelle epatiti croniche

L’AHCC, molecola estratta dal fungo Lentinula edodes, ha dimostrato di supportare il sistema immunitario, nutrendo le sue cellule e di poter essere impiegato con efficacia in una grande varietà di patologie.

Un effetto importante di questa molecola si ha proprio nel trattamento delle epatiti, in cui l’AHCC non sostituisce la terapia tradizionale, ma è in grado di affiancarla riducendo considerevolmente i sintomi e normalizzando i valori biochimici dell’organismo dei pazienti trattati.

Il più grande studio umano effettuato sull’uomo è avvenuto in Texas, dove un medico ha provato a trattare con questa molecola alcuni pazienti affetti da Epatite C, il cui decorso della malattia è stato confrontato con quello di pazienti che non avevano assunto l’AHCC.

Lo studio ha avuto una durata totale di due mesi.

L’epatite C è generalmente è asintomatica nelle fasi iniziali, ma causa un’epatite cronica con degenerazione epatica piuttosto rapida.

Lo studio ha monitorato i valori biochimici dei pazienti nel tempo ed è stata controllata anche la presenza del virus nell’organismo.

I risultati sono stati molto significativi perché, mentre i valori degli enzimi epatici (il cui aumento è associato alla distruzione delle cellule epatiche) sono diminuiti, a dimostrazione del fatto che i danni stessi sono diminuiti, dall’altro il numero di particelle virali è stato ridotto a un decimo rispetto a quello dei pazienti che non avevano assunto AHCC.

I pazienti presi in esame, nel frattempo, proseguivano la loro terapia basata sull’interferone.

Rimane ancora da chiarire il meccanismo d’azione di AHCC: non sappiamo infatti se a diminuire il numero di particelle virali sia stato un sistema immunitario più competente per merito della molecola o se questa abbia agito, in altro modo, direttamente sulle cellule del fegato.

Il meccanismo d’azione sarà quindi oggetto di ulteriori studi.

Altri studi sono in atto relativamente all’epatite B e all’epatite D.

Se, infatti, la terapia con interferone nell’epatite C ha un’efficacia media (circa nel 50% dei pazienti in cura), nelle altre due forme la terapia dà scarsi risultati, e questo rende ancora più importante la ricerca in merito all’azione di questa molecola e ai suoi benefici sull’organismo.

Al momento ci sono diversi studi in atto sulle epatiti B e D, che sembrano incoraggianti e la terapia con integrazione di AHCC sembra, ad oggi, una delle opzioni più promettenti per il trattamento di queste patologie.

FONTE:

  1. Philippa Cheetham, MD Dan Lifton, The Patient’s Guide to AHCC Active Hexose Correlated Compound


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